Quando la Jugoslavia finì nel pallone

Gli scontri avvenuti martedì sera a Marassi, di cui si sono resi protagonisti gli ultrà nazionalisti serbi, non sono certo una novità per le tifoserie della ex Jugoslavia, dove il teppismo da stadio era comparso già a partire da metà anni Ottanta, con qualche anno di ritardo rispetto all’Europa occidentale. Risalgono al 1985 le prime cronache ufficiali di incidenti tra la tifoseria della Stella Rossa, i Delije (“Eroi”) e quella del Partizan di Belgrado, i Grobari (“Becchini”), quando erano ancora relegate ad un ambito di teppismo da stadio. Ma con l’esplosione delle istanze nazionaliste, ben presto gli ultras jugoslavi, sia serbi che croati, iniziarono ad intendere il proprio ruolo di supporters diversamente da come fino ad allora era stato: non più a sostegno di una squadra di calcio, bensì di un’identità. Questo nuovo modo di essere attecchì in maniera particolare presso gli ultras della Stella Rossa, che nella seconda metà degli anni Ottanta abbracciarono in pieno l’ideologia della “Grande Serbia” propugnata da Slobodan Milosevic. A cavallo tra gli Ottanta e i Novanta cominciano i primi incidenti di natura etnica contro gli albanesi, i macedoni e soprattutto i croati, il cui nazionalismo antiserbo stava ormai per esplodere come una bomba.

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La Croazia svolta a sinistra

Secondo i primi exit-poll, resi pubblici dall’emittente privata RTL, il socialdemocratico Ivo Josipovic è il nuovo presidente della Repubblica di Croazia: il candidato della coalizione di sinistra avrebbe infatti ottenuto il 64,6% delle preferenze contro il candidato indipendente Milan Bandic, fermo al 35,4%.
Si tratta di una svolta epocale per la repubblica ex jugoslava: per la prima volta dal 1991, anno dell’indipendenza da Belgrado, il Paese avrà un presidente non proveniente dal HDZ, il partito nazionalista che portò Zagabria a proclamare la secessione dalla Repubblica Jugoslava e che, al pari del Partito Socialista Jugoslavo di Milosevic, ebbe un ruolo non da poco nelle stragi che insanguinarono i balcani nei primi anni Novanta.

INDIPENDENTE DAL 1991. La Croazia aveva proclamato la propria indipendenza da Belgrado nel 1991, sotto la spinta nazionalista di Franjo Tudjman, ex militare dell’esercito jugoslavo che negli anni Ottanta aveva abbracciato l’ideologia di estrema destra “ustascia” contro la politica della Grande Serbia, grazie a cui Slobodan Milosevic aveva scalato in breve il vertice della Repubblica Jugoslava.

Per questo motivo Tudjman, accreditandosi all’estero come leader anticomunista, ottenne facilmente un discutibile appoggio politico da molte cancellerie europee, mentre in patria, grazie al viscerale nazionalismo anti-serbo presente (e mai sopito) in molte fasce della popolazione croata, riuscì a raccogliere intorno a sè un enorme consenso popolare, tanto da divenire un vero e proprio “padre della patria”, l’artefice dell’indipendenza che i Croati cercavano fin dalla fine della Prima Guerra Mondiale.
Durante la sua presidenza, caratterizzata da un forte autoritarismo e da un vero e proprio culto della personalità, l’esercito croato si macchiò di gravi crimini di guerra contro la popolazione civile serba: in particolare, nel 1995, nella Kraijna, regione croata a maggioranza serba, Zagabria avviò una vera e propria pulizia etnica.

L’ERA DI MESIC. Morto Tudjman nel 1999, le elezioni del 2000 portarono alla vittoria di Stipe Mesic, anch’egli esponente del partito di Tudjman ma di idee moderate e filoeuropee. Mesic, dopo la caduta di Milosevic a Belgrado, ebbe il merito di capire che il futuro politico del suo Paese non poteva più passare attraverso il nazionalismo anti-serbo: gli anni della sua presidenza si sono infatti caratterizzati per una trasformazione dell’HDZ in un partito più vicino alla Destra europea che a quella nazionalista cara a Tudjman, e per una politica estera orientata verso l’ingresso della Croazia nell’Ue e nella NATO.

Neanche durante la presidenza Mesic sono tuttavia mancati attriti con il governo di Belgrado: non ultimo, il recente viaggio di Mesic in Kosovo ha scatenato le proteste del premier serbo Tadic, che aveva definito quest’atto come “inutile e lesivo delle relazioni diplomatiche con la Serbia”.